In questo articolo parliamo dalla validità del c.d. “patto di netto”, e di cosa deve sapere il dirigente dal punto di vista legale, per essere tutelato nel caso in cui stipuli un accordo “al netto”.
Con riferimento alle imposte sui redditi, laddove la rivalsa è obbligatoria (come nel caso dell’art. 23 del D.P.R. n. 600/1973 per i redditi di lavoro dipendente), è da ritenere nulla una forma palese di traslazione economica dell’imposta da un soggetto (sostituito) ad un altro (sostituto).
Nell’ambito della rivalsa mediante ritenuta alla fonte è stata, infatti, rilevata la necessità di separare le posizioni del soggetto passivo della rivalsa (sostituito) da quelle del soggetto attivo (sostituto). Per quanto concerne la posizione del primo, cioè quella di soggezione al prelievo, la liceità del patto di non obbligatorietà della rivalsa lede il principio della capacità contributiva, rimettendo alla discrezionalità del sostituto se incidere o meno il sostituito con l’onere tributario.
In buona sostanza verrebbe modificato il quantum del debito tributario del soggetto passivo, con l’effetto di erogare un maggior compenso non tassato con violazione del precetto costituzionale della capacità contributiva (art. 53) e per contrarietà con le norme imperative che dispongono la personalità e progressività dell’IRPEF (art. 1418 c.c.).
Resta ferma, invece, la validità di quei patti che non alterano il meccanismo dell’imposta, ma assumono l’imposta come elemento che concorre a determinare effetti di diritto privato. È, quindi, valido un patto che assicura al Dirigente un compenso al netto dell’IRPEF in quanto si limita a determinare il compenso tassabile aumentato in misura tale da corrispondere, al netto dell’imposta, quanto pattuito dalle parti.
La Suprema Corte ha ritenuto che, sull’interpretazione dell’accordo risultante dal verbale di conciliazione, il tenore letterale della espressione “somma netta”, anche alla luce dell’importo dei singoli pagamenti concordati, altro non può significare se non che al lavoratore debba essere versata tutta la ricordata somma, il che non avverrebbe se su tale cifra venisse trattenuta dalla società l’imposta (Sez. Lav., sentenza n. 16312 del 19 novembre 2002).
Ha però ritenuto che tale risultato fosse stato perseguito con la pattuizione (implicita) che il peso tributario della ritenuta, da operarsi a titolo di acconto dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, dovesse restare a carico della società per effetto di un illecito esonero dall’obbligo di rivalsa, obbligo sancito dall’art. 64 del d.P.R. n. 600/73.
Il Tribunale non dà conto, però, delle ragioni per le quali ha ritenuto che si fosse in presenza di un tale patto, indubbiamente nullo ove fosse stato realmente stipulato (Cass., 19 giugno 1987 n. 5422), e non fosse, invece, consequenziale a quanto osservato, che la somma era “netta”, in contrapposizione ad una somma “lorda” superiore, non indicata ma tale che, detratta la obbligatoria ritenuta di imposta, al lavoratore residuasse, appunto, il ricordato importo netto.
Altra questione da considerare è la volontà delle parti.
Se un patto induce a ritenere che la volontà delle parti fosse quella di riconoscere il pagamento al Dirigente al netto degli oneri fiscali (e contributivi), la parola netto è necessaria.
Al riguardo si osserva che il criterio di interpretazione soggettiva privilegia il criterio letterale che impone al Giudice di interpretare il contratto secondo la connessione logica delle parole e delle espressioni impiegate, senza necessità di ricorrere a criteri sussidiari, quando il testo si rivela chiaro e rilevatore della comune volontà delle parti
L’unica interpretazione coerente con il complessivo regolamento negoziale va connessa necessariamente all’intero testo delle dichiarazioni negoziali e l’esame dell’atto deve essere sistematico. In forza dell’applicazione di tali regole ermeneutiche si ritiene pacifico che le parti, usando l’espressione “somma netta”, intendono non far gravare nulla sul Dirigente.