Nel concetto di invalidità del licenziamento del dirigente non può ricondursi l’ipotesi di “ingiustificatezza” di fonte convenzionale, cui consegue la tutela meramente risarcitoria dell’indennità supplementare. Quest’ultima si collega ad un atto incontestatamente e pacificamente valido, che incide in termini solutori sul rapporto di lavoro. A ciò consegue che l’ambito di applicabilità oggettiva dell’art. 32, secondo comma, legge n. 183/2010 non può che riferirsi alle ipotesi di stretta invalidità (rectius nullità) menzionate dall’art. 18, comma 1, St. Lav. come modificato.
Cass., Sez. Lav., 8 gennaio 2020, n. 148 – Pres. Nobile; Rel. Blasutto; Ric. N.G.I. S.p.a.; Controric. P.S.
Nota
Nel caso di specie un dirigente agiva in giudizio per ottenere il riconoscimento della ingiustificatezza del recesso intimatogli dal datore di lavoro e la conseguente condanna dello stesso al pagamento dell’indennità supplementare.Il Giudice di prime cure rilevava l’intervenuta decadenza di cui all’art. 32, comma 1, L. n. 183/2010, per non aver il dirigente provveduto ad impugnare il recesso nei termini previsti dalla norma. L’appello proposto dal lavoratore veniva accolto dalla Corte territoriale, che, in riforma della pronuncia di primo grado, dichiarava la ingiustificatezza del licenziamento nonchè la tempestività della sua impugnazione, sostenendo l’inapplicabilità del doppio termine decadenziale (60 giorni per l’impugnazione stragiudiziale e 180 giorni per la proposizione della domanda giudiziale) alle ipotesi di licenziamento del dirigente privo di “giustificatezza”.Il datore di lavoro proponeva ricorso per la cassazione della sentenza, denunciando in particolare la errata interpretazione della portata applicativa dell’art. 32, comma 2, L. n. 183/2010.La Corte di Cassazione ha pienamente avallato la decisione della Corte territoriale sul punto, respingendo il ricorso.Partendo dalla considerazione della nota originaria inapplicabilità al licenziamento intimato nei confronti del dirigente dei limiti legali di cui alla L. n. 604/1966, dunque anche dell’art. 6 e degli ivi indicati termini di impugnazione del recesso con i connessi effetti caducatori, il Collegio ricorda come in effetti la L. n. 183/2010 (c.d. “Collegato Lavoro”) abbia esteso l’applicazione della norma, e delle conseguenti decadenze, “a tutti i casi di invalidità del licenziamento” (art. 32, co.2), dunque anche a quelli costituenti fattispecie esterna alla disciplina legale della L. n. 604/66.La novella dell’articolo 18, comma 1, legge n. 300/70 apportata dall’articolo 1, comma 42, della legge n. 92 del 2012 poi, ha espressamente esteso per la prima volta l’applicabilità della tutela reintegratoria alle ipotesi di nullità del licenziamento del dirigente (perché discriminatorio ex art 3, legge n. 108/90, ovvero intimato in concomitanza del matrimonio in violazione del d.lgs. 198/2006 o in violazione delle disposizioni a tutela della maternità e paternità di cui al d.lgs. 151/2001, ovvero ancora perchè determinato da motivo illecito determinante o per altre cause di nullità previste dalla legge).Facendo la somma dei due interventi del legislatore sul punto, è dunque ragionevole ritenere – secondo la Corte di Cassazione – che il doppio termine di impugnazione stragiudiziale (60 giorni) e giudiziale (180) introdotto dalla L. 183/2010 (c.d. Collegato Lavoro) trovi applicazione a tutte le ipotesi di “invalidità” dei licenziamenti a prescindere dalla categoria legale di appartenenza del lavoratore che lo subisce (così già Cass. 22627/2015) e dunque anche a quelli intimati nei confronti dei dirigenti.Ciò detto, precisa la Cassazione, l'”invalidità” cui la norma del “Collegato” fa riferimento, «deve essere intesa in senso restrittivo, avendo riguardo ai confini della categoria di tale vizio propriamente inteso, in relazione alla rilevata incapacità di un atto privato contrario ad una norma di produrre effetti conformi alla sua funzione economico sociale»: è “invalido”, in altre parole, esclusivamente quell’atto che risulti affetto da vizio che lo renda inidoneo ad acquisire pieno valore giuridico, per discostamento dal modello legale o mancanza di requisito ex lege previsto a pena di nullità, ed il cui accertamento abbia efficacia demolitoria dell’atto stesso.Non è possibile, dunque, estendere la portata oggettiva della norma di cui al Collegato, in maniera tale da includervi ogni ipotesi di patologia del licenziamento. L’ingiustificatezza del recesso intimato al dirigente non è in alcun modo riconducibile alla categoria giuridica dell’invalidità: è infatti nozione di creazione giurisprudenziale, nonché propria di un atto che resta validamente risolutorio del rapporto e trova la propria disciplina esclusivamente nella fonte convenzionale (la contrattazione collettiva di settore), che ne prevede il ristoro con la mera indennità supplementare.Quanto alle ricadute processuali della statuizione, la Corte ribadisce la sostanziale autonomia e diversità, per petitum e causa petendi, delle due azioni giudiziali volte ad ottenere la reintegrazione nel posto di lavoro ex articolo 18 St. Lav. come novellato dalla legge n. 92/2012, nell’ipotesi di ritenuta nullità del licenziamento del dirigente, o il pagamento dell’indennità supplementare, nel caso di denunciata non giustificatezza del recesso, che devono intendersi in ragione di ciò sottoposte a diversi regimi di impugnazione e decadenza.Se nella prima ipotesi dovrà certamente trovare applicazione il regime decadenziale di cui all’articolo 32, comma 2, del Collegato Lavoro, nella seconda il dirigente dovrà in conclusione ritenersi esentato dal rispetto del doppio termine di impugnazione per la proposizione della domanda giudiziale.La pronuncia ha già trovato conferma nella sentenza del Supremo Collegio n. 395 del 13.01.2020.