Nel presente articolo affrontiamo il tema della rivendicazione della qualifica di dirigente, e – in particolare – affrontiamo quali siano gli elementi necessari perchè un rapporto di lavoro possa essere qualificato come dirigenziale, partendo da un recente caso di giurisprudenza.
Ebbene ai fini della rivendicazione della qualifica di dirigente (nel quale il lavoratore gode di ampi margini di autonomia e il potere di direzione del datore di lavoro si manifesta non in ordini e controlli continui e pervasivi, ma essenzialmente nell’emanazione di indicazioni generali di carattere programmatico, coerenti con la natura ampiamente discrezionale dei poteri riferibili al dirigente), il giudice di merito deve valutare, quale requisito caratterizzante della prestazione, l’esistenza di una situazione di coordinamento funzionale della stessa con gli obiettivi dell’organizzazione aziendale, idonea a ricondurre ai tratti distintivi della subordinazione tecnico-giuridica, anche se nell’ambito di un contesto caratterizzato dalla c.d. subordinazione attenuata (Cass. Sez. Lav., ord. 29 ottobre 2020, n. 23927 – Pres. Nobile; Rel. Patti; Ric. S.G.; Controric. F.G.
Nel caso di specie il Tribunale di Torino aveva rigettato l’opposizione proposta da un lavoratore avverso lo stato passivo del fallimento della Società sua datrice di lavoro, da cui erano stati esclusi i crediti insinuati in via privilegiata. A motivo della decisione il Tribunale escludeva la prova del loro presupposto e cioè della prestazione lavorativa subordinata dirigenziale, in particolare contemplante un periodo di prova di sei mesi, di cui il lavoratore aveva richiesto in via incidentale l’accertamento della nullità e dell’illegittimità del licenziamento intimato per suo mancato superamento.
Per la cassazione di tale sentenza il lavoratore ha proposto ricorso lamentando, tra il resto, l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, quale l’identità delle mansioni dirigenziali svolte, nonché «il difetto di motivazione in ordine all’inidoneità dei fatti indicati a smentita della fondatezza della comunicazione di non superamento del patto di prova». La Corte di Cassazione ha rigettato entrambi i motivi di ricorso per non avere assolto, il lavoratore, l’onere della prova su di lui incombente. Da un lato, infatti, secondo la Corte, il ricorrente non ha dimostrato la sussistenza, nella rivendicazione della qualifica di dirigente, seppur nella forma attenuata, della subordinazione caratterizzante la natura dirigenziale dell’attività asseritamente prestata. Dall’altro lato, con riferimento alla censura relativa al periodo di prova e al suo superamento, la Corte di legittimità ha affermato che «non ricorre l’omissione di esame di alcun fatto storico, tanto meno decisivo, essendo stata anzi ritenuta la mancata assoluzione, adeguatamente argomentata, dell’onere probatorio a carico del lavoratore ricorrente; ed infatti, in caso di licenziamento intimato nel corso o al termine del periodo di prova (che, avendo natura discrezionale, non deve essere motivato, neppure in caso di contestazione in ordine alla valutazione della capacità e del comportamento professionale del lavoratore), incombe al lavoratore stesso, che deduca in sede giurisdizionale la nullità di tale recesso, l’onere di provare, secondo la regola generale stabilita dall’art. 2697 c.c., sia il positivo superamento del periodo di prova, sia che il recesso è stato determinato da motivo illecito e quindi, estraneo alla funzione del patto di prova».