Il dettato normativo dell’articolo 2125 c.c. – ai sensi del quale “il patto con il quale si limita lo svolgimento dell’attività del prestatore di lavoro, per il tempo successivo alla cessazione del contratto, è nullo […] se non è pattuito un corrispettivo a favore del prestatore di lavoro […]” – delinea esplicitamente la natura del patto di non concorrenza quale accordo sinallagmatico, ad effetti obbligatori e a titolo oneroso.
Un accordo, dunque, per effetto del quale il datore di lavoro si obbliga a corrispondere al lavoratore un compenso a fronte dell’impegno di quest’ultimo a non svolgere una determinata attività in concorrenza con quella svolta dallo stesso datore di lavoro per il tempo successivo alla cessazione del rapporto di lavoro, quale che ne sia la causa.
Tale ineludibile onerosità – pena la nullità del patto per espressa disposizione legislativa – trova origine e giustificazione nella ratio stessa del patto di non concorrenza, volto a garantire un contemperamento quanto più equo possibile tra due ordini di interessi contrapposti: da una parte, quello del datore di lavoro di difendere il proprio know-how e la propria posizione di mercato, impedendo che il proprio patrimonio immateriale – ivi inclusi organizzazione tecnica, amministrativa e produttiva, avviamento, clientela – entri nella disponibilità di imprese in concorrenza per il tramite dell’ex lavoratore; e dall’altra, quello del lavoratore di venire remunerato per le temporanee restrizioni alla propria libertà di prestare la propria opera, le proprie capacità e le proprie competenze professionali alle dipendenze di soggetti giuridici diversi dal precedente datore di lavoro.
Corollario del carattere oneroso del patto di non concorrenza, posto in relazione sinallagmatica rispetto alle rinunce del lavoratore, è che il corrispettivo pattuito debba essere congruo, nonché determinato, o quantomeno determinabile.
Tuttavia l’art. 2125 c.c., pur indicando che il corrispettivo rappresenta un requisito essenziale del patto, non fissa alcun criterio di determinazione dello stesso, lasciando all’autonomia delle parti il compito di determinare sia la misura sia le modalità di versamento dello stesso.
Relativamente al criterio di quantificazione, la giurisprudenza, tanto di legittimità quanto di merito, si è pronunciata a più riprese sul punto, precisando che il patto di non concorrenza deve prevedere la corresponsione a favore del lavoratore di un corrispettivo “congruo” ed adeguato rispetto al sacrificio richiesto al lavoratore stesso, oltre che necessariamente determinato (o determinabile) nel suo ammontare.
In altre parole, il corrispettivo deve risultare adeguato e non meramente simbolico e neppure iniquo o sproporzionato, dovendo essere commisurato al sacrificio imposto al lavoratore, tenuto conto della limitazione della sua professionalità e della riduzione delle sue possibilità di guadagno conseguenti all’applicazione del patto.
Inoltre, in linea di principio il corrispettivo deve essere determinato, o almeno determinabile, nel suo preciso ammontare sin dalla stipulazione del patto, giacché è in tale momento che si perfeziona il consenso delle parti. Il lavoratore, dunque, all’atto della sottoscrizione del patto, deve essere consapevole del “prezzo” a fronte del quale rinuncia, entro certi limiti, al proprio diritto al lavoro costituzionalmente garantito, pena la nullità del patto di non concorrenza.
Resta, dunque, da definire quale debba essere l’ammontare minimo che un corrispettivo deve presentare per poter essere ritenuto congruo, e quale sia il momento per la sua determinazione.
Posto che, per giurisprudenza costante, al patto di non concorrenza non sono riferibili i criteri indicati dall’art. 36 Cost. per la determinazione minima della retribuzione, attesa la sua autonomia causale rispetto al rapporto di lavoro, i Giudici hanno attinto a criteri diversi per valutare la congruità del medesimo.
Si è così affermato, in particolare, che la necessaria congruità sarebbe implicita nella formulazione dell’art. 2125 c.c. e risponderebbe alla stessa ratio sottesa all’imposizione di limiti di oggetto, di tempo e di luogo.
La casistica sul tema è sconfinata e non è possibile indicare una regola generale univoca, in considerazione delle infinite sfumature che caratterizzano ogni diversa situazione lavorativa.
In generale, possiamo ritenere che il compenso previsto dovrà essere tanto maggiore quanto più siano marcati/elevati altri elementi del patto stesso, quali ad esempio la posizione gerarchica del lavoratore, la sua retribuzione, l’ampiezza del vincolo territoriale di applicazione del patto, il novero delle attività e dei datori concorrenti individuati pattiziamente quale oggetto del patto, l’estensione del vincolo temporale.
Volendo tentare di individuare aprioristicamente una misura minima che possa far presumere congruo il corrispettivo previsto da un patto di non concorrenza, si segnala che l’orientamento giurisprudenziale maggioritario ritiene solitamente adeguati, a seconda della misura delle limitazioni richieste al lavoratore, corrispettivi oscillanti tra il 15% e il 40% della sua retribuzione annua lorda.
In questo senso, sono stati ad esempio ritenuti congrui i seguenti corrispettivi:
• 50% dell’ultima retribuzione lorda annua in caso di patto di non concorrenza di durata annuale con un vincolo territoriale esteso a tutta l’Europa e divieto di svolgimento di ogni attività in concorrenza con il gruppo societario di appartenenza del datore di lavoro[6];
• 40% dell’ultima retribuzione lorda annua in caso di patto di non concorrenza di durata annuale con un vincolo territoriale esteso a tutta l’Italia e divieto di svolgimento di ogni attività in concorrenza con il gruppo societario di appartenenza del datore di lavoro[7];
• 10% dell’ultima retribuzione lorda annua in caso di patto di non concorrenza di durata biennale con un vincolo territoriale esteso a tutta l’Italia e divieto di svolgimento di attività solo in specifici settori;
• 12% dell’ultima retribuzione lorda annua in caso di patto di non concorrenza di durata biennale con un vincolo territoriale esteso ad alcune regioni italiane a e divieto di svolgimento di ogni attività in concorrenza con il solo gruppo societario di appartenenza del datore di lavoro.
I giudici, sulla base di questi parametri e al fine di valutare l’effettiva conformità del corrispettivo del patto al modello legale, dovranno operare una valutazione necessariamente unitaria di ogni elemento del patto.
Un altro aspetto da tenere in considerazione è che il corrispettivo previsto al momento della stipula del patto di non concorrenza potrebbe, con il passare del tempo, non risultare più adeguato in relazione alle rinunce richieste al lavoratore.
Al fine di evitare tale rischio, potrebbe essere opportuno prevedere una modalità di rivalutazione del patto di non concorrenza, così da evitare di incorrere in una dichiarazione di nullità dello stesso.
Infine, la quantificazione del corrispettivo può variare, in concreto, a seconda delle forme concordate per il pagamento. Si tratta di un profilo tutt’altro che irrilevante, dato che le parti sono lasciate libere di convenire il sistema ritenuto più idoneo per compensare il prestatore di lavoro, purché venga garantito al dipendente un concreto vantaggio a livello economico.
Uno degli aspetti del patto di non concorrenza rimessi all’autonomia negoziale delle parti riguarda le concrete modalità di corresponsione degli importi pattuiti.
Nel silenzio del legislatore, la giurisprudenza ammette diverse modalità di pagamento, differenziate tra loro sotto il profilo temporale e quantitativo.
In base alla prassi e ai vari orientamenti giurisprudenziali, le principali modalità di pagamento del corrispettivo sono le seguenti:
(a) pagamento di un importo fisso mensile, o determinato in percentuale rispetto alla retribuzione annua lorda, corrisposto durante la vigenza del rapporto di lavoro;
(b) pagamento di un importo fisso, o in percentuale rispetto alla retribuzione annua lorda, corrisposto alla cessazione del rapporto di lavoro, in un’unica soluzione o con cadenza periodica per il tempo di effettiva operatività del patto;
(c) pagamento in forma mista, ovvero versamento di una somma durante il rapporto di lavoro e di un conguaglio al termine dello stesso.
Tra le modalità di corresponsione del compenso, quella in corso di rapporto, in particolare la modalità sub a), è senz’altro quella che ha visto i maggiori contrasti giurisprudenziali.
Secondo una prima corrente interpretativa, oggi minoritaria, la previsione di un corrispettivo da versarsi nel corso del rapporto di lavoro e destinato, dunque, a incrementare in funzione sia della durata indeterminata dello stesso, sia dei naturali prevedibili aumenti della retribuzione, sarebbe legittima e realizzerebbe un sostanziale ed effettivo equilibrio economico con l’obbligazione negativa a carico del lavoratore.
Un corrispettivo che, infatti, accresca in parallelo all’ampliarsi, in senso qualitativo e quantitativo, delle conoscenze e dell’esperienza del lavoratore, garantirebbe effettivamente e con continuità la proporzione fra le reciproche posizioni nella fase di operatività del sinallagma.
Inoltre, la variabilità solo in aumento del corrispettivo escluderebbe la sua indeterminabilità e non andrebbe a intaccare il diverso profilo della congruità del compenso che dovrebbe valutarsi solo ex post, ossia al momento della cessazione del rapporto di lavoro.
In base a un altro orientamento giurisprudenziale, il pagamento del corrispettivo sia in costanza di rapporto che al termine dello stesso è legittimo, a patto che l’importo ricevuto dal dipendente sia congruo rispetto ai vincoli imposti dal patto di non concorrenza.
Tuttavia, secondo l’orientamento giurisprudenziale prevalente, peraltro confermato anche recentemente, la previsione del pagamento di un importo fisso mensile corrisposto durante la vigenza del rapporto di lavoro renderebbe invalido il patto, poiché il corrispettivo sarebbe inevitabilmente indeterminabile ex ante e pertanto aleatorio in quanto dipendente dalla durata del rapporto di lavoro.
Ne conseguirebbe, dunque, un’alterazione della sinallagmaticità del patto di concorrenza, considerato che, al momento della relativa conclusione, il corrispettivo sarebbe del tutto indeterminabile poiché ancorato a una circostanza fattuale, ovvero la durata del rapporto, del tutto imprevedibile ex ante.
Pertanto, in ipotesi di breve durata dello stesso, il corrispettivo potrebbe rappresentare una somma non congrua se raffrontata ai vincoli previsti dal patto.
Un’ulteriore critica mossa attiene alla circostanza che tale modalità di corresponsione del compenso si tradurrebbe in un’impropria utilizzazione del patto di non concorrenza quale strumento di fidelizzazione del lavoratore.
Infatti, la corresponsione del compenso in corso di rapporto, pur costituendo il corrispettivo di un divieto futuro, è idonea a disincentivare il lavoratore a risolvere il rapporto di lavoro e a cercare una nu
Nel silenzio del legislatore, la giurisprudenza ammette diverse modalità di pagamento, differenziate tra loro sotto il profilo temporale e quantitativo.
In base alla prassi e ai vari orientamenti giurisprudenziali, le principali modalità di pagamento del corrispettivo sono le seguenti:
(a) pagamento di un importo fisso mensile, o determinato in percentuale rispetto alla retribuzione annua lorda, corrisposto durante la vigenza del rapporto di lavoro;
(b) pagamento di un importo fisso, o in percentuale rispetto alla retribuzione annua lorda, corrisposto alla cessazione del rapporto di lavoro, in un’unica soluzione o con cadenza periodica per il tempo di effettiva operatività del patto;
(c) pagamento in forma mista, ovvero versamento di una somma durante il rapporto di lavoro e di un conguaglio al termine dello stesso.
Tra le modalità di corresponsione del compenso, quella in corso di rapporto, in particolare la modalità sub a), è senz’altro quella che ha visto i maggiori contrasti giurisprudenziali.
Secondo una prima corrente interpretativa, oggi minoritaria, la previsione di un corrispettivo da versarsi nel corso del rapporto di lavoro e destinato, dunque, a incrementare in funzione sia della durata indeterminata dello stesso, sia dei naturali prevedibili aumenti della retribuzione, sarebbe legittima e realizzerebbe un sostanziale ed effettivo equilibrio economico con l’obbligazione negativa a carico del lavoratore.
Un corrispettivo che, infatti, accresca in parallelo all’ampliarsi, in senso qualitativo e quantitativo, delle conoscenze e dell’esperienza del lavoratore, garantirebbe effettivamente e con continuità la proporzione fra le reciproche posizioni nella fase di operatività del sinallagma.
Inoltre, la variabilità solo in aumento del corrispettivo escluderebbe la sua indeterminabilità e non andrebbe a intaccare il diverso profilo della congruità del compenso che dovrebbe valutarsi solo ex post, ossia al momento della cessazione del rapporto di lavoro.
In base a un altro orientamento giurisprudenziale, il pagamento del corrispettivo sia in costanza di rapporto che al termine dello stesso è legittimo, a patto che l’importo ricevuto dal dipendente sia congruo rispetto ai vincoli imposti dal patto di non concorrenza.
Tuttavia, secondo l’orientamento giurisprudenziale prevalente, peraltro confermato anche recentemente, la previsione del pagamento di un importo fisso mensile corrisposto durante la vigenza del rapporto di lavoro renderebbe invalido il patto, poiché il corrispettivo sarebbe inevitabilmente indeterminabile ex ante e pertanto aleatorio in quanto dipendente dalla durata del rapporto di lavoro[12].
Ne conseguirebbe, dunque, un’alterazione della sinallagmaticità del patto di concorrenza, considerato che, al momento della relativa conclusione, il corrispettivo sarebbe del tutto indeterminabile poiché ancorato a una circostanza fattuale, ovvero la durata del rapporto, del tutto imprevedibile ex ante.
Pertanto, in ipotesi di breve durata dello stesso, il corrispettivo potrebbe rappresentare una somma non congrua se raffrontata ai vincoli previsti dal patto.
Un’ulteriore critica mossa attiene alla circostanza che tale modalità di corresponsione del compenso si tradurrebbe in un’impropria utilizzazione del patto di non concorrenza quale strumento di fidelizzazione del lavoratore.
Infatti, la corresponsione del compenso in corso di rapporto, pur costituendo il corrispettivo di un divieto futuro, è idonea a disincentivare il lavoratore a risolvere il rapporto di lavoro e a cercare una nuova occupazione.
Una soluzione di questo tipo finirebbe, dunque, per snaturare la causa tipica del patto di non concorrenza, attribuendo di fatto al corrispettivo la funzione di premiare la fedeltà del lavoratore, anziché di compensarlo per il sacrificio derivante dalla stipula del patto[13].
Inoltre, l’erogazione del corrispettivo in costanza di rapporto potrebbe altresì condurre in sede contenziosa a una riqualificazione del compenso come forma di retribuzione incentivante o superminimo.
Pertanto, l’erogazione delle somme previste dal patto di non concorrenza in costanza di rapporto dovrebbe avvenire con modalità tali da rendere edotto il lavoratore che le stesse non sono corrisposte a titolo di “integrazione della retribuzione periodica”, bensì in forza e per gli effetti di un contratto diverso e ulteriore rispetto al rapporto di lavoro – il patto di non concorrenza, appunto – e che produrrà i propri effetti in un momento successivo alla cessazione del rapporto lavorativo.
A tal fine, gli importi in questione dovranno risultare espressamente dai prospetti retributivi, unici documenti idonei ad attribuire agli emolumenti corrisposti al lavoratore la loro corretta imputazione.
In caso contrario, un giudice potrebbe ritenere tale compenso come una vera e propria voce di retribuzione, anziché un corrispettivo offerto a fronte di una rinuncia del lavoratore, e conseguentemente dichiarare la nullità del patto stesso per mancanza del corrispettivo.
Per porre rimedio ad alcuni dei problemi evidenziati nelle critiche summenzionate, una soluzione vagliata dalla dottrina e in parte accolta dalla giurisprudenza è quella che vede le parti stabilire un congruo livello minimo del corrispettivo, cosicché il lavoratore avrebbe almeno la garanzia dell’ammontare minimo del patto.
Il pagamento in costanza di rapporto potrebbe essere, dunque, ammissibile se le parti prevedessero nel patto un corrispettivo minimo certo e determinabile ex ante.
In questo modo, il lavoratore avrebbe effettiva contezza sin dalla stipulazione del patto della misura minima del corrispettivo che gli spetterebbe anche in caso di durata breve del rapporto di lavoro, restando aleatorio soltanto l’importo massimo che il dipendente potrebbe arrivare a percepire.
Basterà, pertanto, prevedere un corrispettivo minimo che sia congruo e pattuire che l’eventuale parte di tale importo non ancora versato al momento della cessazione del rapporto sarà in ogni caso corrisposta al dipendente.
Tuttavia, anche tale soluzione è stata talvolta ritenuta invalida dalla giurisprudenza, che ha considerato la parte di corrispettivo pagata mensilmente alla stregua di una mera quota della retribuzione e ha ritenuto comunque che l’ammontare complessivo del corrispettivo resterebbe indeterminabile dato che il dipendente all’atto della sottoscrizione sarebbe in grado di conoscerne solo l’importo minimo.
In conclusione, stante l’orientamento giurisprudenziale oltremodo altalenante, la validità del patto di non concorrenza in caso di corresponsione del corrispettivo in costanza di rapporto rimane ancora oggi un tema aperto.
Quanto invece all’erogazione del corrispettivo al momento conclusivo della collaborazione con il lavoratore o anche successivo, in un’unica soluzione ovvero in più soluzioni scaglionate nel tempo, non si pongono particolari temi.
L’unica questione che può assumere un certo rilievo attiene alla congruità dell’importo pattuito (che abbiamo già trattato) e all’eventuale sopravvenuta incongruità dello stesso, soprattutto nei casi di patto di non concorrenza di una certa durata, in ragione dei possibili fenomeni inflattivi sull’emolumento originariamente pattuito che potrebbe minare la legittimità dello stesso.
Una soluzione in questo caso percorribile potrebbe essere quella di prestabilire nel patto una modalità di rivalutazione dell’importo dovuto dall’azienda.
Quanto all’erogazione della somma predeterminata in più soluzioni scaglionate nel corso del periodo di validità del patto di non concorrenza – anziché in un’unica soluzione al momento della cessazione del rapporto di lavoro – tale soluzione non pare sollevare particolari problematiche, presentando semmai dei vantaggi per il datore di lavoro.
Infatti quest’ultimo potrà valutare continuativamente nel tempo l’adesione del lavoratore ai dettami concordati nel patto di non concorrenza e, qualora riscontri delle violazioni dello stesso, potrà sospendere l’erogazione delle somme concordate ai sensi dell’art. 1460 c.c. e agire per la ripetizione di quanto già corrisposto, fatto salvo l’ulteriore risarcimento dell’eventuale danno; al contempo, il lavoratore sarà pertanto incentivato ad attenersi alle previsioni del patto di non concorrenza.
In definitiva, la corresponsione del compenso all’atto o in seguito alla cessazione del rapporto di lavoro appare a chi scrive la soluzione preferibile e più cautelativa, ovviamente assumendo che l’importo concordato risulti determinato o determinabile sin dalla sua stipulazione e parametrato alla retribuzione annua del lavoratore al momento stesso della cessazione del rapporto di lavoro