Il potere del dirigente di organizzare autonomamente il godimento delle proprie ferie, pur se accompagnato da obblighi previsti dalla contrattazione collettiva di comunicazione al datore di lavoro della pianificazione delle attività e dei riposi, non comporta la perdita del diritto, alla cessazione del rapporto, all’indennità sostitutiva delle ferie se il datore di lavoro non dimostra di avere, in esercizio dei propri doveri di vigilanza ed indirizzo sul punto, formalmente invitato il lavoratore a fruire delle ferie e di avere assicurato altresì che l’organizzazione del lavoro e le esigenze del servizio cui il dirigente era preposto non fossero tali da impedire il loro godimento
Cass. Sez. Lav. 6 giugno 2022, n. 18140, est. Dott. Bellè
Il rapporto di lavoro dirigenziale è governato da logiche differenti rispetto alle restanti categorie di lavoratori subordinati, contemplati dall’art. 2095 cod. civ.. Per il dirigente la sua qualifica professionale particolarmente elevata e prossima all’imprenditore comporta un trattamento giuridico distinto. L’ordinamento, infatti, spesse volte disegna una disciplina “in negativo” caratterizzata da rilevanti deroghe rispetto alla disciplina comune riservata agli altri lavoratori subordinati.
Tali peculiarità di carattere generale avevano portato la Suprema Corte ad assumere, anche recentemente, un orientamento negativo che tendeva ad escludere il diritto all’indennità sostitutiva delle ferie non godute alla cessazione del rapporto di lavoro dirigenziale.
Eppure, la sentenza della Cassazione 6 giugno 2022, n. 18140, in commento è giunta a conclusioni opposte, riconoscendo centralità alla recente giurisprudenza della CGUE. Per il Giudice europeo, infatti, è principio immanente nell’Unione la funzione per l’ordinamento di fugare a tutti i livelli situazioni materiali in cui l’onere di assicurarsi dell’esercizio effettivo del diritto alle ferie annuali retribuite sia interamente posto a carico del lavoratore. A nulla rilevando la circostanza per cui il dirigente ha la facoltà di organizzare autonomamente il godimento delle proprie ferie, non comportando ciò di per sé la perdita dell’indennità sostitutiva
La lite oggetto della sentenza in commento trae origine dal giudizio per differenze retributive, instaurato da un dirigente medico avanti al Turbinale del Lavoro di Sciacca. Più in dettaglio, il lavoratore – responsabile di una struttura sanitaria – agiva in giudizio per il riconoscimento dell’indennità per le ferie non godute di ammontare pari 258 giornate, dell’indennità per turni notturni pari a 158 notti, dell’indennità per 10 turni di disponibilità/reperibilità nonché dell’indennizzo per l’attività di gestione dell’attività di elisuperficie.
La domanda, parzialmente accolta dal Giudice di prime cure con riferimento all’indennità di ferie non godute nonché per i turni notturni svolti, veniva integralmente respinta dalla Corte d’Appello, stante il potere di autorganizzazione dell’orario di lavoro, nonché la carenza di prove in ordine a concrete esigenze sopravvenute e non prevedibili, tale da ostacolare il godimento delle ferie. Per gli altri, di cui era richiesto altresì indennizzo, le pretese venivano integralmente respinte, poiché le attività ad essi riconducibili (organizzazione dei turni notturni, reperibilità e gestione dell’attività di elisuperfice) non erano certamente di competenza della dirigenza primariale
Con riferimento alla categoria dei dirigenti, la legge che regola l’orario di lavoro pur introducendo alcune deroghe, nulla però espressamente dispone in deroga per quanto attiene al riposo ed alle ferie degli stessi.
Con riguardo in dettaglio alle ferie, la normativa prevede che il dirigente ha diritto ad un periodo annuale di riposo non inferiore a 4 settimane, due delle quali devono essere godute nell’anno di maturazione e le restanti nei successivi 18 mesi. Il CCNL di settore può ovviamente disporre deroghe e/o integrazioni.
La disciplina dispone che il godimento delle ferie non sia monetizzabile; perciò, non può essere sostituito dal pagamento di una indennità, salvo il caso di risoluzione del rapporto di lavoro. Il divieto di monetizzazione delle ferie di cui all’art. 7, comma 2, della Dir. 93/104/CE – poi confluita nella Direttiva 2003/88/CE – e ripreso dall’art. 10, comma 2, del d.lgs. n. 66 del 2003, è finalizzato a garantirne il godimento effettivo che sarebbe vanificato qualora se ne consentisse la sostituzione con un’indennità, la cui erogazione non può essere ritenuta equivalente rispetto alla necessaria tutela della sicurezza e della salute. Da ciò discende che l’eccezione al principio – prevista nella seconda parte delle già menzionate disposizioni, concernente la inapplicabilità del predetto divieto in caso di risoluzione del rapporto di lavoro – opera nei soli limiti delle ferie non godute relative al periodo ancora pendente al momento della risoluzione in questione, e non consente la monetizzazione di quelle riferibili agli anni antecedenti
Il contesto giurisprudenziale superato dalla corte
Ciascun lavoratore ha diritto ad un riposo quotidiano, settimanale e annuale, secondo la vigente normativa che risulta essere attuazione di quanto disposto dall’art. 36 della Costituzione, il quale sancisce che il diritto al riposo è irrinunciabile. La ratio del presidio assoluto che la Carta Costituzionale assicura al riposo personale risiede nella necessità di recupero delle energie fisico-psichiche, spese in occasione di lavoro, nonché dare concreta attuazione ad interessi familiari e sociali del lavoratore di pari rango costituzionale.
Con riferimento alla categoria dei dirigenti, la legge che regola l’orario di lavoro pur introducendo alcune deroghe, nulla però espressamente dispone in deroga per quanto attiene al riposo ed alle ferie degli stessi[1].
Con riguardo in dettaglio alle ferie, la normativa prevede che il dirigente ha diritto ad un periodo annuale di riposo non inferiore a 4 settimane, due delle quali devono essere godute nell’anno di maturazione e le restanti nei successivi 18 mesi. Il CCNL di settore può ovviamente disporre deroghe e/o integrazioni.
La disciplina dispone che il godimento delle ferie non sia monetizzabile; perciò, non può essere sostituito dal pagamento di una indennità, salvo il caso di risoluzione del rapporto di lavoro. Il divieto di monetizzazione delle ferie di cui all’art. 7, comma 2, della Dir. 93/104/CE – poi confluita nella Direttiva 2003/88/CE – e ripreso dall’art. 10, comma 2, del d.lgs. n. 66 del 2003, è finalizzato a garantirne il godimento effettivo che sarebbe vanificato qualora se ne consentisse la sostituzione con un’indennità, la cui erogazione non può essere ritenuta equivalente rispetto alla necessaria tutela della sicurezza e della salute. Da ciò discende che l’eccezione al principio – prevista nella seconda parte delle già menzionate disposizioni, concernente la inapplicabilità del predetto divieto in caso di risoluzione del rapporto di lavoro – opera nei soli limiti delle ferie non godute relative al periodo ancora pendente al momento della risoluzione in questione, e non consente la monetizzazione di quelle riferibili agli anni antecedenti[2].
Proprio sotto questo profilo, la disciplina del rapporto di lavoro dirigenziale presentava un elemento di specialità. Infatti, mentre per le altre categorie professionali si riconosce generalmente il diritto al pagamento dell’indennità per ferie non godute tra le spettanze di fine rapporto, per i dirigenti la giurisprudenza tendeva ad escludere tale diritto, sulla base della considerazione per la quale il rapporto dirigenziale genuino conferisce al lavoratore poteri di autonomia tali da autoassegnarsi il periodo destinato al godimento del riposo.
Era un principio consolidato nella giurisprudenza di legittimità che il lavoratore con qualifica di dirigente che abbia il potere di decidere autonomamente, senza alcuna ingerenza da parte del datore di lavoro, circa il periodo nel quale godere delle ferie, ove non abbia fruito delle stesse non ha diritto ad alcun indennizzo, in quanto se il diritto alle ferie è irrinunciabile, il mancato godimento imputabile esclusivamente al dipendente esclude l’insorgenza del diritto all’indennità sostitutiva, salvo che il lavoratore non dimostri la ricorrenza di eccezionali ed obiettive esigenze aziendali ostative a quel godimento
Come detto, l’odierna sentenza ha ritenuto di addivenire a conclusioni diametralmente opposte rispetto a quelle sin ora sintetizzate.
In dettaglio la pronuncia in commento ha deciso di dare continuità e al contempo rielaborazione al principio, di recente affermato dalla recente sentenza della Cassazione 2 luglio 2020, n. 13613 che – ponendosi in contrasto con il precedente orientamento – ha statuito che il dirigente il quale, al momento della cessazione del rapporto di lavoro, non ne abbia fruito, ha diritto a un’indennità sostitutiva, a meno che il datore di lavoro dimostri di averlo messo nelle condizioni di esercitare il diritto in questione prima di tale cessazione, mediante un’adeguata informazione nonché, se del caso, invitandolo formalmente a farlo
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