L’esercizio del diritto di critica, nel rispetto dei limiti tracciati, e soprattutto la presentazione di una denuncia di illecito penale o amministrativo da parte del lavoratore nei confronti del datore di lavoro non integrano di per sé fonte di responsabilità disciplinare e giustificare il licenziamento per giusta causa, a meno che la denuncia non abbia carattere calunnioso, e senza che rilevino l’infondatezza della accusa e i limiti di continenza formale e sostanziale, dato che l’accusa di commissione di un illecito è per definizione disonorevole. Tali principi comportano, necessariamente, che non possa attribuirsi rilevanza disciplinare atta ad integrare di per sé la giusta causa di recesso alla condotta di un lavoratore, dirigente e direttore generale che, senza neanche rivolgersi all’autorità giudiziaria o amministrativa, si limiti a ipotizzare la configurabilità di illeciti penali o amministrativi, mettendo in guardia i soggetti insieme a lui teoricamente responsabili, e ciò faccia nelle sedi e con le modalità specificamente previste dall’ordinamento, come negli articoli 2392 e 2396 c.c..
Cass., sez. lav., 31 maggio 2022, n. 17689
In una fattispecie a dir poco peculiare che sta suscitando reazioni contrastanti nel mondo giuslavoristico si è pronunciata la Corte di Cassazione con la sentenza n. 17689/2022, affermando che la segnalazione di fatti di potenziale rilievo penale, ipoteticamente commessi dal datore di lavoro (e rivelatesi poi insussistenti), non può di per sé integrare una giusta causa di licenziamento se manca l’intento calunnioso.
La vicenda
Il caso riguardava il licenziamento di un dirigente con ruolo di direttore generale appena assunto da un’azienda che da qualche anno versava in uno stato di crisi.
Sin dai primi giorni dal suo ingresso, il neodirettore manifestava le sue riserve sulla valutazione di alcune poste contabili. Dopo poco meno di tre mesi dall’assunzione, durante una riunione del Consiglio di amministrazione, dava lettura e distribuiva una relazione che metteva in evidenza la possibile commissione di fatti illeciti relativi alla tenuta contabile dell’azienda.
L’elemento chiave della vicenda verte infatti su questo documento che elencava – forse con un eccesso di zelo – le voci di bilancio che il dirigente stimava errate, attribuendo a tali anomalie una connotazione illecita. Chiosava infatti con: ritengo quindi opportuno sintetizzare i principali elementi economici – patrimoniali, accolti nella bozza di piano attestato di risanamento (ex art. 67 L.F.) del 28 maggio 2013, redatto ai fini dell’approvazione dello stesso da parte del ceto bancario finanziatore del gruppo, con evidenti rischi connessi all’eventuale reato di “ricorso abusivo del credito”. Conseguentemente, si evince la gravità dei fatti evidenziati, configurandosi la fattispecie criminosa del “falso in bilancio”.
Come era prevedibile, la circolazione di questa relazione innescava una serie di indagini da parte del collegio sindacale e l’intervento della società di revisione. A seguito delle opportune verifiche, tuttavia, si accertava la sostanziale infondatezza delle eccezioni sollevate dal dirigente. Veniva quindi avviato un procedimento disciplinare a suo carico, all’esito del quale il datore di lavoro irrogava la sanzione più grave del licenziamento per giusta causa.
Il recesso datoriale veniva impugnato innanzi al Tribunale di Mantova che respingeva le domande attoree. Tale decisione veniva confermata anche dalla Corte di Appello di Brescia che riteneva legittimo il licenziamento del dirigente affermando come lo stesso «si fosse volontariamente posto in contrapposizione con le scelte adottate dagli organi gestionali della società e come quindi non potesse sussistere alcun rapporto di fiducia».
Di diverso avviso è stata invece la Suprema Corte che, con una analisi dettagliata dei principali istituti giuridici che hanno toccato la vicenda, si è espressa in senso opposto cassando la decisione impugnata con rinvio alla Corte di Appello di Milano. In particolare, tre sono le questioni su cui si è soffermata, ossia il diritto di critica, denuncia e dissenso.
La sentenza in commento rammenta come la giurisprudenza di legittimità abbia elaborato principi – ormai consolidati sul tema -, individuando regole volte a contemperare il diritto stabilito dall’art. 21 Cost. con altri diritti concernenti beni di pari rilevanza costituzionale e come, successivamente, siano stati definiti i limiti di continenza sostanziale e formale entro i quali il diritto di critica sia legittimamente esercitabile dal dipendente. Ed invero, sotto il primo profilo, i fatti narrati devono corrispondere alla verità, sia pure non assoluta ma soggettiva e, sotto il secondo, l’esposizione dei fatti deve avvenire in modo misurato, cioè deve essere contenuta negli spazi strettamente necessari all’esercizio del diritto di critica.
Ricorda inoltre come tali limiti debbano essere valutati con particolare rigore laddove la critica sia avanzata da parte di un lavoratore che sia anche rappresentante sindacale.
Nel caso in esame, tuttavia, il dirigente non aveva solo espresso le sue valutazioni negative sull’operato dell’azienda, ma aveva segnalato il possibile rilievo penale dei fatti commessi dal datore di lavoro. Poiché la condotta della denuncia risponde a esigenze diverse rispetto alla manifestazione di un pensiero critico, è stato affermato che non possano applicarsi le medesime limitazioni della continenza sostanziale e formale previste per l’esercizio del diritto di critica.
La denuncia
Nella vicenda in esame, infatti, l’esercizio del diritto di libera manifestazione del pensiero non si era esaurita nella esternazione di un giudizio negativo sull’azienda, ma il dirigente aveva altresì segnalato che la società potesse essersi resa responsabile di azioni penalmente rilevanti.
La sentenza in commento ricorda che la denuncia di fatti di potenziale rilievo penale non possa integrare una giusta causa di licenziamento, qualora non emerga il carattere calunnioso della denuncia medesima. Ciò significa che perché la denuncia sia legittima, nel formulare le accuse, il lavoratore non deve essere consapevole della non veridicità delle stesse. Insomma, non deve sussistere la volontà di accusare il datore di lavoro di fatti mai accaduti o comunque mai commessi.
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